Nel burrone by Anton Cechov

Nel burrone by Anton Cechov

autore:Anton Cechov [Čechov, Anton Pavlovič]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Garzanti Classici
pubblicato: 2024-06-26T22:00:00+00:00


VI

Da un pezzo ormai si sapeva che avevano messo Anisìm in carcere per fabbricazione ed emissione di moneta falsa. Passarono mesi, passò una mezz’annata, passò un lungo inverno, giunse la primavera, e ci si era abituati, fra i parenti e nel villaggio, all’idea che Anisìm stava in prigione. Allorché qualcuno di notte camminava vicino alla casa o alla bottega, ci si ricordava che Anisìm era in prigione; e quando suonava la campana del cimitero, anche allora, chissà perché, ci si ricordava che lui era in prigione, e aspettava la sentenza.

Era come se un’ombra si fosse stesa intorno agli Tsybùkin. La casa anneriva, il tetto si arrugginiva, la pesante porta della bottega rivestita di lamiera tinta di verde si scuriva e, come diceva il sordo, «si induriva», e il vecchio Tsybùkin, lui pure, sembrava fosse annerito. Da un pezzo non si era fatto tagliare i capelli e la barba, e si trascurava. Saliva in tarantass3 senza più saltarci dentro, né più gridava ai poveri: Ci pensi Iddio! Le sue forze diminuivano, lo si vedeva da tutto. La gente lo temeva già meno. Il commissario di polizia, benché continuasse a intascare, gli aveva fatto una denuncia: fu chiamato tre volte in città, per commercio clandestino di acquavite. Il processo fu rimandato sempre per assenza di testimoni, e Tsybùkin si tormentava a morte.

Di frequente andava a trovare suo figlio, si rivolgeva a tutti, presentava suppliche, faceva dono di stendardi di chiesa. Regalò al custode del carcere un portabicchieri d’argento, con una scritta smaltata: «L’anima conosce la propria misura», e un lungo cucchiaio.

«Nessuna persona perbene che intervenga!» diceva Varvàra. «Och-tech-te! Bisognerebbe domandare a qualche signore di scrivere alle autorità... Se almeno lo lasciassero libero, sino al giudizio... Perché far soffrire il ragazzo?»

Pure lei era afflitta; ciò nonostante ingrassava, diventava più bianca. Accendeva sempre le lampade nella sua camera, badava che tutto in casa fosse in ordine, e invitava quanti venivano là, in casa, a mangiare dolci e pasta di mele. Il sordo e sua moglie trafficavano in bottega. Avevano avviato un nuovo affare, una fabbrica di tegole a Butëkino, e Aksìnja vi andava quasi ogni giorno in tarantass: guidava lei stessa, e incontrando qualcuno di conoscenza tendeva il collo come una serpe in mezzo alla prima segala, e sorrideva con aria ingenua ed enigmatica. Lipa giocava continuamente col bambino che le era nato prima della quaresima: era un bimbetto magro che faceva pena, e pareva strano che gridasse, che guardasse, che si avesse da considerarlo come un essere umano, e che avesse nome Nikìfor. Quand’era coricato dentro la culla, Lipa si allontanava verso la porta e gli diceva, con un inchino:

«Buon giorno, Nikìfor Anisìmyč!»

Poi si slanciava ad abbracciarlo. Ritornava ancora verso la porta, salutava e ricominciava. Egli alzava in aria le gambette rosse, e i suoi pianti e le sue risa si mescolavano, come accadeva al carpentiere Elizàrov...

Il giorno della sentenza fu infine fissato. Tsybùkin partì per cinque giorni. Si diceva ch’erano stati chiamati come testimoni dei contadini del villaggio. Un vecchio operaio, avendo ricevuto una citazione, partì anche lui.



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